MUCCHE

La Vatse vuja d’un tchit

Etto Margueret è stato un tchit. Un bambino pastore di mucche. La sua non è una delle tante storie tristi di sfruttamento minorile di altri tempi, la sua è una storia che, seppur segnata dalla morte prematura del padre e dalla emigrazione in Francia della madre in cerca di un lavoro, lo vede trascorrere un’infanzia serena coi nonni. Su nei mayen in estate, a correre per i prati. Ad annoiarsi a morte a pascolare i manzi; a rompere le scatole ai maiali, insomma a fare quello che doveva fare: il bambino.

Etto, le mucche le conosce da sempre: nel bene e nel male (per le bestie ovviamente). Infatti, lasciati gli alpeggi alla ricerca del proprio destino, le incontra di nuovo e questa volta in una macelleria di Parigi. Si può dire che il suo sia stato un passaggio dal figurativo all’astratto. Sezionate in gustose bistecche, le vende alla clientela parigina per cinque lunghi lustri. Ora, all’età di setanta e più anni, le dipinge. Perchè la pittura è sempre stata per Etto la sua vera passione. Dunque, per la terza edizione della Désarpa-Festa della Mucca, non potevo non accorgermi di lui.

Conosciutissimo in Valle per essere, fra i tanti altri mestieri che vi ha esercitato, il pittore della ‘Tribù dei Visilunghi’ – ritratti di personaggi famosi e non, particolarmente allungati – Etto si presenta in questa occasione con un omaggio verso quelle che, in un modo o nell’altro, sono state le compagne i una buona parte della sua vita. Il pubblico vedrà questa volta sulle sue tele qualcosa di diverso. Vedrà le montagne solenni inondate di luce e vedrà loro: le mucche.

Strane creature dalla forma riconoscibile, ma dai colori che scaturiscono dalla tavolozza di uno spensierato daltonico. Improbabili macchie viola, verdi, rosse caratterizzano il manto di questa straordinaria mandria di bovine. Il taglio costruttivo è quello della fotografia tradizionale: le mucche pascolano come al solito, si leccano come sempre, guardano qui e là con il loro sguardo consueto, ma il colore è quello di chi se ne frega del realismo, approfittando anche di un ‘difetto’ che lo legittima e lo rende orgoglioso della propria ‘diversità’.

Accordi gialli e viola, rossi e verdi ci danno l’idea della sua totale libertà cromatica e del gran divertimento che ne consegue. Perchè è inubbio che Etto in questa esaltazione coloristica si diverta e molto. È come se fosse tornato tchit a correre lungo i pascoli ideali della pittura per combinare tutti i colori. E se gli steccati del convenzionale non lo aiutano a superare i compromessi con la realtà, la sua capacità di costruire lo spazio attraverso il colore puro, distruggendone la prospettiva, crea una contraddizione stilistica spontanea dagli effetti piuttosto ironici.

Mucche con macchie luminose. Bizzarre creature mutanti che Etto ha rapite dalla normalità del contesto, per trasferile, in un luogo senza tempo, ma con un nome preciso: colore. No, non potevo accorgermi di lui.

Patrizia Nuvolari